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L’aterotrombosi è una malattia cronica che colpisce le arterie e il miocardio. Inizia con la formazione di strie lipidiche reversibili, che possono evolvere in placche fibrose e aterosclerotiche a causa di fattori di rischio come ipertensione, ipercolesterolemia, diabete e fumo. Queste placche possono causare eventi ischemici come angina e attacchi ischemici transitori (TIA). La prevenzione primaria e secondaria è fondamentale per ridurre il rischio di eventi clinici, soprattutto nelle persone ad alto rischio. Le scale di rischio cardiovascolare aiutano a valutare la probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari, tenendo conto di vari fattori di rischio.

L’aterotrombosi è il meccanismo che si trova alla base dell’insorgenza della malattia aterosclerotica; si tratta di una malattia cronica infiammatoria ed immunomediata, che si realizza a livello della tonaca intima delle arterie e del miocardio. Inizialmente si ha formazione delle prime strie lipidiche, condizione iniziale reversibile; successivamente invece con la formazione della placca fibrosa, evento facilitato dalla presenza di fattori di rischio quali ipertensione, ipercolesterolemia, diabete e fumo, la regressione diventa molto più difficile mentre viene facilitato il passaggio verso la formazione della placca aterosclerotica – che coinvolge anche l’intima del vaso e conduce allo sviluppo di eventi transitori come l’angina e l’attacco ischemico transitorio (TIA). Le prime strie lipidiche si possono formare anche nel bambino e nell’adolescente: se non si corre ai ripari continuando con le cattive abitudini la condizione può peggiorare, mentre in questo caso si può ancora tornare alla normalità.

Diventa un epitelio patologico pur non andando incontro a mutazioni anatomiche. Tutto ciò si verifica maggiormente nei punti di biforcazione delle arterie, perché in quei punti l’endotelio è soggetto ad una maggiore attivazione meccanica. Successivamente avviene un passaggio di un eccesso di LDL ossidate a livello dell’intima: queste si accumulano formando prodotti intermedi del catabolismo delle lipoproteine, i quali hanno attività antigenica poiché non vengono più riconosciuti come strutture proprie dell’organismo. Si attiva pertanto la risposta immunitaria: i monoliti giungono a livello del danno, inglobano le lipoproteine ma non sono in grado di digerire in maniera adeguata, per cui divengono cellule schiumose che producono citochine con richiamo di ulteriori linfociti e monociti; questi richiamano le cellule muscolari lisce dallo strato medio delle arterie, che diventano a loro volta monociti e poi macrofagi, perdendo la capacità contrattile. Si realizza così una destabilizzazione della parete dell’arteria che, affollata di strutture cellulari, detriti e lipoproteine, inizia ad ispessirsi progressivamente fino a provocarne l’ostruzione – che può essere lenta o subire una brusca accelerazione.

Se poi il trombo che così si forma viene danneggiato si può verificare il vero e proprio evento trombotico. A livello fisiologico accade che inizialmente il tessuto del vaso si lacera richiamando piastrine e fattori della coagulazione, che formano il primo tappo piastrinico; se ciò non fosse sufficiente a risolvere il danno viene dato il via all’emostasi secondaria con l’attivazione della fibrina, la quale, in condizioni patologiche, porta allo formazione di un coagulo che se si stacca dalla placca può andare ad ostruire un vaso di minori dimensioni determinando fenomeni ischemici (ictus, ischemia, infarto). Le manifestazioni più frequenti delle malattie cardiovascolari e degli eventi trombotici sono a carico dell’encefalo (ischemia cerebrale e attacco ischemico transitorio), del cuore (infarto del miocardio e angina pectoris stabile o instabile) e degli arti, soprattutto inferiori (dolore a riposo, ischemia, cancrena, necrosi).

Le fasi fondamentali della formazione della placca sono l’infiammazione e l’ossidazione, che prevede la formazione dei prodotti intermedi dell’ossidazione stessa – ovvero i radicali liberi. A questo proposito è doveroso ricordare che un tentativo di modificare la formazione delle placche è stato fatto attraverso la supplementazione di vitamine antiossidanti (A, C, E) che si credeva potessero rallentare la progressione dell’aterosclerosi; in realtà l’ipotesi non si è verificata, ovvero tale supplementazione non condiziona la progressione della malattia né la comparsa degli eventi. Si può fare un discorso diverso invece per quanto riguarda le statine, farmaci che inibiscono la sintesi endogena di colesterolo e che hanno anche attività antinfiammatoria e antiossidante; si tratta di farmaci che – a parità della riduzione del colesterolo – hanno portato ad una riduzione della probabilità del manifestarsi di un evento clinico addirittura superiore alle attese. L’aterosclerosi è una patologia sistemica; ciò significa che sebbene un soggetto presenti una placca localizzata in una determinata zona – se si trova per esempio a livello della carotide darà come esito un infarto del miocardio – anche la localizzazione a livello degli arti inferiori, che risulta essere più benigna dal punto di vista della prognosi, presenta comunque un coinvolgimento generale di diversi distretti corporei. Trovandosi di fronte ad una malattia sistemica non ci si può limitare ad analizzare il singolo distretto coinvolto perché non è sufficiente a proteggere efficacemente il paziente.

L’obbiettivo è agire sulla prevenzione sia primaria, quindi azioni concrete di sensibilizzazione a livello della popolazione generale, sia in particolar modo sulle persone ad alto rischio che hanno già avuto uno o più eventi, che sono anche coloro che traggono maggiori benefici.

Scale di rischio cardiovascolare

Il rischio di contrarre malattie cardiovascolari è calcolato attraverso le scale di rischio, che permettono di valutare la probabilità di un individuo di andare incontro ad un evento clinico e possono essere costruite in maniera diversa a seconda dell’obbiettivo che ci si pone.

Si prende ad esempio una popolazione di riferimento che deve essere quanto più simile al soggetto in esame: si considera rischio molto elevato se l’incremento della probabilità di contrarre la malattia è del 20%, mentre incrementi del 5-10% sono considerati bassi.

Si tratta di tabelle che vengono costruite per esempio in rapporto all’aumento dei valori di pressione arteriosa, poiché in tal caso aumenta anche la probabilità del verificarsi di un evento cardiovascolare; una persona che presenta una pressione arteriosa di 180-110mmHg è più a rischio rispetto ad una con pressione di 140-90mmHg. La pressione arteriosa da sola non determina un rischio molto elevato ma si noti che, prendendo la colonna centrale, per gli stessi valori di pressione è possibile passare da un rischio basso (inferiore al %) ad un rischio molto elevato a causa della compresenza di altri fattori di rischio – come diabete, fumo, ipercolesterolemia.
La determinazione di tali classi di ipertensione è stata fatta proprio sull’evidenza che tali incrementi di valori determinano l’aumento della probabilità di verificarsi di un evento clinico.

I soggetti che hanno già avuto un evento clinico sono considerati a rischio molto elevato. Un’altra patologia che diventa epidemiologicamente sempre più rilevante e che si associa ad un rischio cardiovascolare molto elevato è l’insufficienza renale cronica. Il rischio pertanto può aumentare in due modi: con la presenza di fattori di rischio, o con la presenza di danno d’organo – ovvero un’alterazione morfologica o funzionale di un organo o di un apparato che clinicamente non dà segno di sé e che pertanto è necessario ricercare con valutazioni strumentali. Nell’ambito della patologia aterosclerotica possibili danni d’organo sono rappresentati dalla formazione di placche a livello delle carotidi e delle arterie degli arti inferiori, che si possono individuare con un’ultrasonografia che permette di osservare la parete delle arterie; in presenza di una placca – anche se il soggetto è clinicamente silente – bisogna considerare il suo profilo di rischio e si va a misurare anche lo spessore dell’intima poiché quanto è maggiore tanto il rischio è più elevato. Nel caso di un soggetto iperteso invece, si possono andare a ricercare dei danni a livello del cuore – del quale aumenta lo spessore delle pareti – oppure nei reni – attraverso l’analisi dell’albumina nelle urine, che aumenta quando più del 50% della funzionalità renale complessiva è compromessa. La presenza di albumina nelle urine compresa tra i 30 ed i 300mg/24h è indice di danno renale – il marker è usato sia nell’ipertensione che nel diabete.

Nella valutazione del rischio cardiovascolare, per predire la velocità di progressione dell’aterosclerosi bisogna effettuare sempre una valutazione integrata che deve basarsi sull’anamnesi (raccolta della storia clinica) del paziente, sulla presenza di fattori di rischio e sui segni dei processi alla base della malattia aterosclerotica – definiti appunto come danno d’organo.
Il rischio può essere considerato con alcune scale per esempio che considerano solo gli eventi fatali, mentre altre confrontano gli eventi fatali e non fatali. La prima scala pertanto si aggira tra un rischio <1% fino ad uno >15%, mentre la seconda da <5% a >30%.

Altre scale dividono i fumatori dai non fumatori – essendo il fumo un fattore che incrementa il rischio di incorrere in eventi clinici – oppure considerano l’età, i valori della pressione arteriosa e quelli di colesterolo totale.

Il rischio aumenta anche nei soggetti diabetici, ed in particolare tale patologia è considerata un fattore di rischio per diverse condizioni soprattutto in compresenza con l’ipertensione.

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