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Le epatiti virali sono infezioni che si trasmettano principalmente attraverso il cibo o per via parenterale, con conseguenze diverse a seconda del tipo di virus. Le forme acute, come quelle causate dall’epatite A, tendono ad avere un decorso più rapido e una prognosi favorevole, mentre i virus B e C spesso evolvono in forme croniche, spesso asintomatiche, che possono portare a gravi complicanze come la cirrosi epatica. Il virus dell’epatite D infine può infettare solo chi è già affetto da HBV, aggravando il quadro clinico.

Le epatiti virali si vengono a determinare in seguito a infezioni che nella maggior parte dei casi sono contratte attraverso il cibo. Il quadro clinico che si presenta può essere quello di una patologia acuta – che quindi prevede un certo periodo di incubazione cui segue uno preitterico ed uno itterico, per poi terminare con la convalescenza – ma alcune tipologie di virus (soprattutto il B ed il C) hanno una certa tendenza a cronicizzare dando una patologia che nella maggior parte dei casi si presenta in maniera asintomatica. Il paziente pertanto ha il virus ma non se ne accorge se non per un riscontro occasionale, oppure dopo anni di permanenza quando improvvisamente si inizia a vedere un incremento delle transaminasi o si presenta un malessere. La patologia che si contrae attraverso gli alimenti ha solitamente un’insorgenza rapida e di conseguenza una prognosi migliore, mentre quelle che si trasmettono per via parenterale sono più spesso a carattere cronico.

Gli epatovirus maggiormente importanti sono tre: HAV, HBV ed HCV. La vaccinazione è disponibile per i primi due, ma è obbligatoria solo per l’HBV dal 1992 e ciò ha dato degli ottimi risultati per quanto riguarda la prevenzione; il vaccino per l’HAV è invece consigliato al personale a rischio e ai turisti che intendono recarsi in paesi tropicali con scarsa igiene. Il rischio di contrarre la patologia è diminuito a partire dagli anni novanta, più precisamente da quando si è venuti a conoscenza del virus C – precedentemente il contagio poteva avvenire anche con una semplice trasfusione. Per ridurre il rischio di infezioni ci sono delle norme che è bene ricordare: per prima cosa quelle di igiene generale, quindi soprattutto lavarsi le mani con regolarità e fare attenzione agli alimenti che si consumano soprattutto se ci si trova in viaggio in zone a rischio (evitare frutti di mare, acqua non imbottigliata, ghiaccio e verdure crude), evitare di nuotare in acque inquinate. È inoltre importante non scambiare rasoi, spazzolini, forbicine; se si fa uso di droghe, non scambiare siringhe né altri materiali per la preparazione; se si fanno piercing o tatuaggi, fidarsi solo di centri certificati ed autorizzati; non è comune contrarre la malattia attraverso rapporti sessuali, ma rimane buona norma utilizzare il profilattico.

I test di laboratorio maggiormente interessanti riguardano la ricerca degli epatovirus B e C – HBsAg o antiHCV – tuttavia per ottenere una diagnosi si rende necessario effettuare una biopsia – trattandosi di un processo infiammatorio – che può aiutare anche nell’identificare con precisione lo stadio della malattia. Si stanno cercando dei possibili surrogati meno invasivi a questo test come il Fibroscan ma esso restituisce un indice di fibrosi che si presenta negli stadi già avanzati, mentre non è efficace in presenza di sola infiammazione.

Le indicazioni per effettuare il test di HBV comprendono sia un quadro clinico sia una serie di fattori di rischio; il primo comprende l’alterazione degli enzimi epatici, sintomi o segni clinici di malattia epatica, epatopatia accertata e candidati al trattamento con immunosoppressori.

Tra i fattori di rischio – che sono condivisi quasi nella loro totalità con l’epatite C – invece si trovano:

  • Persone nate in aree iperendemiche
  • Persone con promiscuità sessuale
  • Persone che utilizzano o hanno utilizzato in passato droghe per via endovenosa
  • Persone sottoposte sia attualmente che in passato a emodialisi cronica
  • Pazienti con infezione da HIV o HCV
  • Conviventi e partner sessuali di persone con infezione da HBV

Epatite C

L’epatite C è una patologia cronica correlata all’infezione da HCV – trattasi di un virus differente dagli altri poiché presenta un genoma ad RNA. Ad oggi rappresenta il fattore eziologico maggiormente importante per la cirrosi epatica, anche se il virus più diffuso rimane ancora l’HBV perché i vaccini non sono disponibili nei paesi in via di sviluppo, che sono anche quelli maggiormente a rischio di infezione per via delle scarse condizioni igieniche. Il virus dell’epatite C ha tuttavia la particolarità di presentare numerosi portatori sintomatici – si stimano 200 milioni nel mondo e più di 1,5 milioni solo in Italia – pertanto sono soggetti che non sospettano tale infezione, di conseguenza non si curano e incorrono nella complicanza della cirrosi epatica.

L’incubazione del virus ha una forbice temporale molto ampia che va da 2 settimane a 6 mesi; difficilmente dà origine ad un’epatite acuta mentre nella maggior parte dei casi (più del 70%) si sviluppa una patologia cronica – che nel 10-20% dei casi si complica in cirrosi, che risulta letale nel 1-5%. La prevalenza di questa tipologia di epatopatie croniche è ancora piuttosto alta in particolare al sud, esistono dei farmaci ma ci sono tutt’oggi molti decessi poiché in assenza di diagnosi comporta quasi sempre una cirrosi. La trasmissione più comune avviene tra tossicodipendenti, mentre non è molto frequente il passaggio materno-fetale né quello sessuale.

La diagnosi veniva effettuata mediante il dosaggio degli anticorpi anti-HCV – non neutralizzanti, pertanto coesistono con la viremia – ma ad oggi si effettua un dosaggio dell’RNA nel sangue, il quale compare velocemente nell’epatite acuta e persiste nelle forme croniche. Il test maggiormente specifico rimane anche in questo caso la biopsia epatica, che consente di determinare sia la natura che la severità di un’epatopatia; come già accennato anche la tecnica del Fibroscan può risultare utile ma solo in presenza di fibrosi – la cirrosi epatica è una sorta di cicatrizzazione eccessiva del fegato che con tale strumento si può vedere e seguire nel tempo.

Un soggetto che presenta già un’epatite cronica ed è a rischio di un’infezione occulta incrementa le probabilità di sviluppare la cirrosi epatica; il rischio aumenta inoltre in particolari condizioni:

  • Età avanzata di infezione
  • Età avanzata di diagnosi
  • Sesso maschile
  • Stadiazione della malattia alla diagnosi
  • Malignità della malattia
  • Quantità di tessuto coinvolto
  • Coinfezione con HBV o HIV
  • Abuso di alcool
  • Steatosi epatica o insulino-resistenza

Diagnosticare e trattare con efficacia l’epatite C è fondamentale per prevenire la sua complicanza maggiormente grave, la cirrosi epatica; fino a non molto tempo fa l’unica cura disponibile erano somministrazioni di interferone che tuttavia rappresentavano un problema sia per via dei numerosi effetti collaterali sia perché non ha uguali risultati su tutti i virus. I nuovi antivirali, di cui il capostipite è il Sofosfubir, si possono invece assumere per os – quindi a domicilio – sono molto efficaci e ora molto utilizzati. Sono molto costosi.

Epatite B e D

Il virus dell’epatite B è un virus classico a DNA, come quello della A; il virione viene detto particella di Dane dal nome del suo scopritore: essa presenta un particolare antigene superficiale detto HBsAg. Negli adulti l’infezione è spesso asintomatica (90%) e solo nel 5-10% dei casi cronicizza; nei bambini invece le forme croniche sono più numerose e la trasmissione da madre a figlio ha una frequenza estremamente elevata. In Italia la prevalenza è diminuita nettamente grazie alle vaccinazioni.

L’infezione può iniziare con una forma acuta, ma non necessariamente, quindi cronicizzare; l’infezione cronica può a sua volta essere asintomatica quindi la diagnosi può avvenire in maniera tardiva, magari con l’insorgenza della cirrosi. Il DNA del virus dopo anni di permanenza nell’organismo si può integrare con quello dell’ospite, nel fegato, e questo può dar luogo a cancerogenesi: questa caratteristica lo rende maggiormente pericoloso rispetto al virus C. I portatori asintomatici in particolare sono un rischio anche perché favoriscono il contagio: si possono somministrare degli antivirali efficaci, ma è importante una diagnosi tempestiva e spesso affinché il soggetto li prenda si rende necessario informare della possibile deriva cancerosa. La diagnosi è inoltre resa maggiormente difficile dal fatto che in alcune finestre temporali il test – che prevede la ricerca del DNA del virus nel sangue – può risultare negativo.

Si sono sviluppate delle nuove terapie sia per l’epatite B sia per l’epatite C – con un trattamento di sole 12 settimane si riesce a guarire dal virus. Segue un controllo di 6-12 mesi e dopo 24 in caso di negatività il soggetto viene considerato guarito. Esistono anche dei trattamenti di mantenimento che risultano utili per prevenire le reinfezioni. Gli obbiettivi della terapia sono essenzialmente quelli di sopprimere la replicazione del virus, incrementare il rate di sieroconversione e normalizzare i livelli di ALT in modo da migliorare l’istologia del fegato. Si riduce o rallenta così la progressione della malattia verso la cirrosi migliorando la sopravvivenza – ad esempio un paziente con epatite C cronica una volta che guarisce dall’infezione solitamente vede regredire almeno in parte il danno epatico o comunque esso si ferma allo stadio raggiunto senza progredire ulteriormente.

Si sono osservati anche dei casi di resistenza ai farmaci ma sono dovuti soprattutto a fattori di rischio socio- ambientali piuttosto che alla vera e propria resistenza del virus che può essere elusa cambiando il tipo di farmaco o assumendone due in abbinamento – ce ne sono tre o quattro tipologie. Alcuni di questi fattori possono essere il consumo di alcool, lo stile di vita smodato, la presenza di sindrome metabolica e l’assunzione di farmaci epatotossici.

Il virus dell’epatite D invece è stato scoperto piuttosto di recente da parte di alcuni ricercatori italiani a Torino; si è trattato di una scoperta importante in quanto si tratta di un virus difettivo che non causa infezione da solo ma necessita della presenza del virus B – chi lo contrae vede tuttavia aggravarsi la patologia in maniera non indifferente. La coinfezione infatti può portare ad un’epatite acuta grave, ma a basso rischio di cronicizzazione; si può verificare anche la condizione di superinfezione dove le forme croniche sono più frequenti e anche più gravi.

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